Ci
sono diversi modi di scrivere delle storie. Il paradigma è costituito
da due estremi: realismo e fantastico. All’interno di essi ci
si può sbizzarrire come si vuole. Molte sono le forme e i generi.
La diversificazione ha moltiplicato la produzione ed allo stesso tempo
ha reso tutto evanescente. Ognuno annaspa all’interno dell’arcipelago
tentando di salire su uno degli atolli dal quale osservare meglio il
mondo interiore. A scalata completata scopre soltanto di essere più
solo di prima in mezzo al mare.
Dovendo
scegliere tra i due poli opposti – o qualcosa che fosse più
vicino all’uno o all’altro – la mia preferenza si
è andata sempre più indirizzando verso ciò che
non esiste. La pretesa di alcuni scrittori di vedere trasformata in
meglio la realtà attraverso la letteratura è andata scemando
fino alla sua totale scomparsa. Ormai si è convinti che la Storia
si muove secondo sue coordinate aleatorie sicché gli uomini di
pensiero poco o nulla possano fare per modificarla. Non resta dunque
che parlarne da storici o in modo romanzesco: col solo intento di razionalizzare
fenomeni sfuggenti alla comprensione nel momento in cui si manifestano.
Dunque
il fantastico come mantello della creatività. Dalla congiunzione
tra questi due astri sono nati i poemi, le fiabe, le favole, i romanzi
di avventura, quelli picareschi, la fantascienza: e cioè i capolavori
dell’immaginario se si pensi a Omero, Dante, Grimm, Andersen,
Jules Verne, Cervantes, Azimov ecc… Muovendomi più facilmente
in questi territori che altrove sono passato gradualmente dalle Favole
per adulti al Lavoro poetico suuna locuzione avverbiale per quindi approdare
al romanzo onirico, introspettivo, metapsichico con Gilberte. A completare
il panorama sempre più caratterizzato dal fantastico stanno i
Racconti patafisici e pantagruelici; quelli dal titolo New York allucinogeni
e merletti; Il golfino celeste a maglie larghe; ed ora questi.
Al
fine di modellare l’universo astrale nel quale preferibilmente
mi colloco per osservare gli umani mi sono spesso servito delle opere
di Italo Calvino, rinunciando pertanto a qualsiasi rapporto con quelle
di Pasolini. Non nego alcune influenze determinanti: da Oliver Swift
a Stevenson; da Marquez a Borges. L’ironia sottile di alcuni (penso
al Memoriale del convento di Saramago) della quale ho fatto tesoro –
che però mi è profondamente connaturata – è
servita per togliere qualsiasi velleità di sapienza o saccenza
alla mia scrittura: non disgiunta comunque da artifici linguistici che
attingono le loro radici nelle opere di scrittori sperimentali come
Queneau o Manganelli. È noto che per essere vivo un romanzo o
un racconto deve scardinare la consuetudine altrimenti muore subito
dopo la lettura. Di qui il mio sforzo controllato di mettere in discussione
le regole del gioco.
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