|
Si vuole che Capellino, vero apolide, nasca a Viterbo e cresca a Roma.
Egli, che a volte sta chiuso in un guscio di riccio come una giovane
castagna incontaminata e di solito non esiste se non nella nostra immaginazione,
se siamo ancora capaci di averne, fa svolazzare un aquilone in ciclo
a mezzanotte; gioca al pallone nelle strade deserte o attraversa con
passo leggero, suonando il tamburo, silenziose, metafisiche piazze;
suole dormire in un bozzolo di seta e viaggiare nei musicali spazi della
fantasia, fotografa farfalle, rincorre la scia di un'astronave, allegoria
dei nuovi orizzonti della favola, e pone in gara il proprio cervello
con quello elettronico; compete antieroicamente con Robin Hood dei boschi,
va in vacanza a Pachino e a Capo Passero in Sicilia, scrive favole dalle
trame affini e con protagonisti sempre buoni, sia uomini sia animali;
naviga sull'onda del mito dissacrato, aspetta terribili accadimenti
o qualcuno che non è Godot, e intanto osserva con entomologica
attenzione una pallina di stereo guidata da un agile scarabeo rotolare
lungo la china, oppure un insetto che gravita indeciso su un cardo;
si cimenta nella professione giornalistica e inoltre ha talento —
da dilettante alla Savinio, da «realista magico» —
per le «imprese pazze e senza scopo » e per la trasgressione
permanente.
Il donchisciottesco Capellino e il suo fido scudiere, «che altri
non sarebbe se non il suo autore», marciano in simbiosi dentro
frasi «a onda lunga», ricche di assonanze, eufonie, allitterazioni,
cacofonie e di tutti i detriti delle lingue e letterature del mondo,
trasportando cospicue tracce di un Saint-Exupéry sfiorato dal
primo Palazzeschi e da Joyce, dell'esperienza futurista e delle Mille
e una notte, libro d'ore d'ogni favolista, specie se siciliano com'è
Apolloni.
|
|