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Amabile
e affabile Signora,
questa che Le scrivo non è una lettera d'amore, né à
mai méme né tantomeno (Dio me ne guardi) alla Sua rispettabile
persona. Di lettere d'amore meglio non scriverne, da quando - or son
duecent'anni - la signora di Merteuil fu punita dal vaiolo che ne
sfigurò la perfida bellezza e il tristissimo Jacopo, dopo tanto
spreco di sospiri e di missive, finì agonizzante nel proprio
sangue. Niente, dunque, allusioni e sia pure vereconde, o corteggiamenti
postumi e perciò apparentemente innocui, che viceversa abbondano
nella prosa epistolare dell'Apolloni che qui di seguito leggerà,
dopo ch' io l'abbia condotta per mano - e munita di salutari avvertenze
- sulla soglia di queste pagine a tutta prima seducenti ma a ben vedere
impregnate di diabolici elisir. [... ]
A quella prosa smagata e svagata (pensi per l'appunto, cara Signora,
al De Roberto degli Amori e di Le donne, i cavalier), a quei cavilli
pirandelliani, al vagheggiamento solipsistico dei "galli"
brancatiani, mi vien di pensare leggendo e gustando le lettere dell'Apolloni:
sorridendone e patendone, da siciliano io stesso («Come si può
essere siciliani?» si chiese giustamente un vicerè riformatore)
e perciò avvezzo ai raggiri e ai patimenti d'un eros tanto
debordante quanto cerebrale, tanto rapinoso quanto vaniloquente, tanto
irrorato da sanguigne pulsioni quanto destinato a fissarsi - e vanificarsi
- sulla carta.
(dalla premessa in forma di lettera di Antonio Di Grado)
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