Ignazio Apolloni

STUDI E TESTIMONIANZE

       
     
       
Antonino Contiliano

Aldo Gerbino

Attilio Lolini
Elisabetta Mondello
Ugo Piscopo
 
 

Antonino Contiliano

 

 

Antigruppo Siciliano
Frammenti di storia, avanguardia e impegno.
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Aldo Gerbino

 

 

Estratto da “Storia della Sicilia”, volume ottavo, Pensiero e cultura letteraria dell’Ottocento e del Novecento, Editalia – Domenico Sanfilippo Editore, pagg. 601-602 e 604-605.

“Antigruppo” e gruppi fra Trapani e Palermo. Maniera, impegno e canto

Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta le inquietudini dei giovani raccolti attorno a Luciano Anceschi e alla celebrata rivista «Il Verri», nonché al gruppo dei “novissimi” (Sanguineti, Pagliarani, Porta e altri), vede Palermo quale polo della sperimentazione letteraria, artistica, teatrale e musicale. Roberto Di Marco, Michele Perriera e Gaetano Testa pubblicano con Feltrinelli La Scuola di Palermo anticipando così la nascita del Gruppo ‘63 (il loro catecumenico convegno fu infatti registrato a Palermo nel 1963) che ordinò il manipolo della sua avanguardia.
Non si riconobbero nella linea del Gruppo ‘63 alcuni giovani scrittori e poeti siciliani i quali, nella seconda metà degli anni Sessanta, costituirono l’Antigruppo (Crescenzio Cane, Ignazio Apolloni, Pietro Terminelli, Nat Scammacca – principale animatore di cui vanno ricordati tra i tanti testi: Ombre e luci, Glenlee, A Lonely room –, Santo Calì, Rolan¬do Certa). Con essi ancora aderirono, o vollero respirare quella atmosfera, scrivendo nelle ricche antologie del tempo, raccolta in due ponderosi volumi (Antigruppo), autori quali Carmelo Pirrera e Gianni Diecidue, espungendo i sentimenti di rivalsa, troppo spesso vestiti del tono litigioso della provincia, con più avvertite esigenze di autonomia sperimentativa e che avessero anche la caratterizzazione del rispetto della territorialità culturale. Figure prossime, quelle dell’Antigruppo, alle frange estremiste dell’ideologia marxista, rappresentarono le caratteristiche icone del sottoproletariato urbano. Molte le pubblicazioni di antologie, libri, riviste, ma restarono (sin da quel confinato periodo e con qualche eccezione) un fenomeno locale spesso con prove letterarie di esile valore, vestito di un acceso epigonismo, come del resto simili fenomeni furono registrati in altre aree del meridione italiano. Figura di spicco fu senza dubbio Santo Calì, che, come riferisce N. Mineo, fece uso di una scrittura dialettale la quale «non riproponeva certa¬mente valori del passato per conservarne il senso e per proiettarli come futuro. La sua è un’operazione di “inclusione” nel dialetto dei valori più moderni e, poiché rivoluzionario era, dei valori rivoluzionari». Un autore, un poeta che Mineo registra dentro «una tradizione che ha – a monte – Porta e Belli, cioè i poeti che hanno rivelato il mondo popolare non come mondo folklorico ma come mondo di sofferenza, come mondo di dignità umana». Ma con esso va evidenziata, per l’assunzione di una identità autonoma forte¬mente inserita sul versante della comunicazione e del fascino multimediale, la figura di Ignazio Apolloni (vedi in questo volume) e, per il suo valore temporale, il centralismo proletario nelle opere di Crescenzio Cane (Palermo 1930).
Da questo impegno, protrattosi sia sul piano di una vigile attenzione nei confronti del linguaggio (Apolloni) sia del senso e del peso della parola (Pirrera), proprio Carme¬lo Pirrera (Caltanissetta 1932) consente negli anni la levitazione della sua scrittura attraverso un’intensa attività pubblicistica (operata su scenari letterari del tempo quale “Impegno 70” e “80”, il cui maggiore promoter fu Rolando Certa, e soprattutto attraverso una riacquisizione dei termini poetici ribaltando esperienze personali e collettive della sua area d’origine (quella nissena), ricca di suggestioni e innervata da un realismo profondamente coinvolto con il mito. L’espressione di Pirrera, rivolta sul fronte della prosa sin dagli anni Settanta (La ragazzata, 1972; Quaranta sigarette, 1974; Il colonnel¬lo non vuole morire, 1974; Ipotesi sul caso Maiorana, 1981), è soprattutto nella poesia che ritrova la sua dimensione più assorta (da Quartiere degli angeli del 1968 a Que¬st’animale muore del 1976, da Giocando con la polvere del 1982 a Il miele di maggio del 1985), più partecipe sul piano delle emozioni e della consapevolezza. Ma l’attività di agitatore culturale permane, dirigendo la piccola rivista «Issimo», con la redazione della poetessa Francesca Traina e di Pino Giacopelli (di cui vengono segnalate tra le più recenti auto-pubblicazioni: Mizar, L’Officina delle comete, Semi di rosaspiga, Flauto di cristallo, Opus incertum, L’inevitabile accade sempre), o curando piccoli volumi per le edizioni Il Vertice. Un’attività e un’identità poetica, quella di Pirrera, attenta al vasto seme del respiro della memoria e della realtà, dove vengono riconosciuti tra i padri le figure indimenticabili di Vann’Antò e Calogero Bonavia.


Ignazio Apolloni. Oltre i confini della visionarietà

Se dovessimo evidenziare il vasto ecumene letterario di Ignazio Apolloni (Palermo 1932), potrebbe essere sufficiente il termine che Stefano Lanuzza esprime nel testo di presentazione del suo più recente testo di narrativa (Racconti patafisici e pantagruelici): «un brulichio di figure burlesche, paesaggi sghimbesci, eventi tumultuosi e patetici, anima questo libro connotato da uno spirito d’osservazione calcolatamente disinvolto, ironico, frammentario, martellante, e antisistematico; oltre che da un lessico autoreferenziale o discentrato dal senso: malizioso e infido, inteso a significare un mondo che nella sua difformità non ha confini né facili rifugi». Questi – continua – «sono negati dall’autore sempre lesto a superare con una battuta o un’arguzia qualsivoglia dialettica, temeraria morale, sintesi subliminale, retorica epicità».
Visione e manualità, marchio e gesto, tracciati fono-idosemantici, lettering e neo-chirografie, fanno di questo poeta (e scrittore) singlossico e sperimentatore dell’anti-nonsense, di questo surreale costruttore di libri lignei, distanziatosi dall’epigonismo manieristico di cui è stato afflitto il Gruppo ‘63, un’autonoma voce di ricerca. Interessanti e vivaci le sue «sketch-poesie», il cui «aspetto fondamentale», scriveva Rossana Apicella (1979), «può essere identificato nella ricerca della singlossia come coscienza e scelta di un modus, di una ratio operativi: Apolloni non incontra occasionalmente la singlossia come un veicolo di comunicazione che gli consenta di essere, agevolmente, «dans le vent», dal momento che, oggi, non è possibile essere neoteroi o novissimi senza essere vecchissimi e desueti, ma è possibile solo essere contemporanei nella reificazione di un linguaggio idofonosemantico». Nell’uso della linea, del corpo simbolico, della parola assunta come categoria o come oggetto drasticamente immerso nella sua più impetuosa natura semantica, come nella continua deflagrazione operata tra il signifi¬cante e il significato, e ancora attraverso quella voluttà pronta a sostenere l’impeto del calembour, viene consegnata alla visione scardinante di Apolloni una singolare ricchez¬za di umori creativi. Di Ignazio Apolloni vanno ricordate le opere di narrativa: Niusia (1965-68) e, dopo le esperienze delle Favole per adulti, i trentuno racconti di Capelli¬no, il romanzo poetico-metafisico Roma 1956 e Gilberte (1997), raccoglie parte della sua poesia in Singlossie / Ignazio Apolloni (1997). Recenti: l’opera buffa L’histoire de l’oeuf a’ la coque (2000) e Racconti patafisici e pantagruelici (2000). La sua visionarietà ri-creativa si libra, con una vigoria coinvolgente e tumultuosa, in ogni forma di comu-nicazione, in una fluviale quanto canalicolare espansione, attraverso la fantasmagoria acromatica di irruenti pieghe corporali e psichiche.

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Attilio Lolini

 

SFOGLIANDO IL PASSATO E PER COMPRENDERLO

Sfogliando i numeri di Antigruppo Palermo e poi di Intergruppo si ha, oggi, l’impressione di una grande distanza; il mondo “descritto” in quei fascicoli è lontano anni luce e, noi stessi, rileggendoci, stentiamo a ravvisarci, anzi non ci riconosciamo per nulla. Poco più, poco meno di venti anni e la scena è radicalmente mutata, abitiamo un pianeta completamente diverso. Gli scrittori che erano (ingiustamente) bersaglio dei nostri corsivi: Sciascia, Volponi, Morante, Fortini, Parise ecc., più che scomparsi, sono dimenticati o, al massimo, oggetto di tesi di laurea da parte di qualche studente universitario con interessi necrofili. La lontananza, vogliamo ripeterlo, dai primi anni ottanta appare insomma fantascientifica. Antigruppo, intanto, faceva parte di una costellazione di riviste, fogli, collettivi, oggi del tutto estinti e dimenticati ma che a quei tempi erano dotati di una vitalità straordinaria tanto da riguardare, in qualche modo, gran parte del bel paese. Un’editoria di base, capillare e diffusa, interessava molte città italiane, da Cuneo a Palermo; nascevano riviste, collane di poesia mentre esplodeva la “moda” del ciclostile: una massa imponente di palinsesti poetici distribuiti, per lo più, per posta e “recitati” nelle così dette letture pubbliche che ogni assessorato alla cultura che si rispetti promuoveva.
Tra le innumerevoli riviste e rivistine di quegli anni Intergruppo si distingueva per la cura della grafica e la stampa impeccabile (quasi del tutto assente in altre imprese del genere legate alla pratica del ciclostile) ispirate, in qualche modo, ai modelli dell’avanguardia ortodossa del Gruppo ‘63 (Tam Tam, di Adriano Spatola, tanto per citare una rilevante testata) o alla neoavanguardia politica, se così si può dire, delle riviste promosse da gruppi vicini alle esperienze di Quindici e de I quaderni piacentini. Nel primo numero di Intergruppo, del 1974, Pietro Terminelli, in quello che rimane – più che un editoriale – un manifesto teorico della rivista, afferma, parafrasando Il Manifesto di Marx, che uno spettro si aggira per la penisola, lo spettro dell’Intergruppo, appunto. La scrittura, com’era di moda allora, è volutamente difficile ma si delineano già una pluralità di temi che saranno determinanti nella storia della rivista: la contestazione degli anni settanta ha messo a nudo le vecchie accademie e le nuove; si auspica e si lavora per una cultura sempre più massicciamente demifisticatoria, liberatrice. A tal proposito si fanno i nomi di Benjamin, Marcuse, Adorno e l’inevitabile Mao-Tse-toung.
Le polemiche roventi sono indirizzate contro il neorealismo (che per Terminelli comprendeva anche il buon Pagliarani) e, ovviamente, l’avanguardia del Gruppo ‘63 ossia lo sperimentalismo di Sanguineti e Balestrini mentre Giuliani veniva inserito nei casellari del neocrepuscolaresimo. Posizioni assai vicine a quelle di altre esperienze, specie fiorentine e catanesi, con le quali l’Intergruppo aveva rapporti assai stretti anche se Collettivo R, di Luca Rosi (ma non la raffinata Quasi, di Zagarrio e Favati) e Salvo Imprevisti, di Mariella Bettarini disdegnavano ogni belluria grafica in favore di una stampa spoglia e francescana. I bersagli erano, tra l’altro, i così detti intellettuali, specie quelli di sinistra con i loro fervorini inneggianti alla prudenza, con un piede nei gruppi e l’altro saldamente posato sulla cattedra universitaria. Cosa continuano a fare gli intellettuali in Sicilia?, si chiedeva polemicamente Antigruppo Palermo. Niente, più di niente, ossia continuano a non esistere o a farsi vivi solo quando c’è da “grattare” qualcosa. Risfogliando questa rivista si ha l’impressione di un’autenticità mai truccata, spesso i bersagli appaiano pretestuosi ma in complesso trapela una ricchezza linguistica rilevante frutto, anche, dell’abbattimento d’ogni schema; Antigruppo ospita l’oltranza e non importa se essa entra in collisione con l’idea stessa della rivista letteraria, anche quella estremistica e rivoluzionaria. C’è sprezzo delle buone maniere, di tutte le convenzioni e non è un caso se oggi, da una lettera di Terminelli, leggiamo un passo dove ci incita a dir male di tutti, a non guardare in faccia a nessuno.
Si diceva della distanza da oggi; in anni in cui il computer era un sogno avveniristico, i poeti e scrittori si scambiavano molte lettere, specchio di un paese travagliato da rivolte di ogni tipo ma avviato inesorabilmente verso una totale restaurazione, quella odierna, appunto. La poesia dei giovani (angeli del ciclostile), la poesia operaia, la poesia delle donne; gli scrittori hanno smesso di fare le belle statuine, di essere l’ornamento di una cultura accademica e provinciale; la scrittura diventa politica e scende nelle piazze, si fa slogans e volantino, inneggia alla rivoluzione. Ma questa non è poesia, dicevano i poeti laureati, i giovani poetessi reggicoda al seguito di quelli, ma intanto erano messi in scacco da un clamore che non intendevano e non volevano capire. Verso la fine degli anni ottanta, quando il potere torna tutto nelle mani della vecchia istituzione letteraria, verrà attuata una strategia della dimenticanza; quegli anni non vanno né studiati né capiti ma solo archiviati. Antigruppo è lo specchio di quei tempi e non è un caso (a parte i saggi di Giuseppe Zagarrio e Stefano Lanuzza) che si faccia finta che non sia neppure esistito come tutta l’esperienza, per esempio, della poesia operaia.
Un pur minimo elenco dei redattori e dei collaboratori di Intergruppo rimanda ad un’idea di poesia e di scrittura che, oggi, nell’Italia della restaurazione e del conformismo, potrebbe essere oggetto di studio e seria riflessione per conoscere meglio anni di generose ed intense avventure letterarie. A chi ora sfogli queste riviste può capitare di non intendere quasi nulla delle furiose polemiche degli anni settanta; anche il Gruppo ‘63 appare del tutto archiviato per non dire dello stesso Pasolini “politico”. In un editoriale non firmato dell’ottobre del 1973, si scrive a lungo dell’impegno degli scrittori di Antigruppo, un movimento che è nato, anzi venuto su dai movimenti di base delle masse lavoratrici e degli studenti, tende sempre di più a coinvolgere le masse nella vita artistica e letteraria dell’Isola. Si elencano, dopo aver riconosciuto il “ciclostile” come prima alternativa alla stampa ufficiale, una serie di iniziative contro l’industria editoriale al potere: recitals di poesie e dibattiti, pubblicazioni di base e cooperativistiche in uno scontro “linguistico e dialettico” con le strutture mortificanti e mistificatrici della Sicilia e dell’intera Italia. Contro il pessimismo ufficiale dei critici borghesi si afferma che la letteratura non è morta, tanto meno la poesia: questa va cercata nella clandestinità. La nuova poesia è rivoluzionaria perché non serve la causa borghese e non è più pensabile che questa possa essere un prodotto privilegiato di una èlite di intellettuali legati alla cultura al potere. È notevole, in questo argomentato scritto, la “fotografia” della cultura siciliana dell’epoca del resto non dissimile, d’altra parte, da quella di oggi.
Oltre i libelli, le invettive in versi e i palinsesti “tellurici” diretti contro la così detta borghesia, responsabile d’ogni crimine e malefatta, Antigruppo, pubblicava anche testi creativi, come le favole di Ignazio Apolloni, pagine di Mariella Bettarini, poesie di Andrew Donus, Jack Hirschman, Gianni Toti e perfino un intervento su Fortini di Gianni Riotta allora scatenato movimentista oltre a scritti, di sapiente critica, di Nicola di Maio. Tra questi materiali c’è qualcosa di duraturo, non legato alle polemiche e alle “mode” correnti, insomma i materiali propriamente creativi appaiono quelli più riusciti, sottratti – ma non del tutto – alla furie iconoclaste dei collaboratori e redattori “politici”. Se si considerano testate simili sparse in tutta Italia (ma Antigruppo resta un caso a sé) si ha l’impressione che, in quegli anni, la poesia fosse davvero uscita all’aperto ossia dall’Accademia e l’Università (che sono poi la stessa cosa), dalle logiche delle case editrici e fosse diventata davvero uno strumento di comunicazione diretto a tutti. Veniva liquidato l’Ermetismo e l’avanguardismo petrarchesco del Gruppo ‘63 per la sperimentazione di un linguaggio diretto a tutti ed, in modo particolare, alla classe operaia, con risultati spesso contraddittori e ingenui ma va constatato che, allora, i lettori e i fruitori di poesia erano infinitamente superiori a quelli d’oggi; la poesia entrava ovunque anche se, spesso, era “azione” e comizio. Sfogliando i numeri di Antigruppo, che serbiamo rilegati, oggi, più che la distanza, sovviene una specie di rimpianto e di malinconia. Lì sta, in qualche modo, il nostro ritratto di giovani ingenui e, talvolta, sprovveduti, ma anche il catalogo delle rinunce, delle piccole viltà che abbiamo accettato diventando vecchi e sordi all’entusiasmo e alla generosità.

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Elisabetta Mondellov


Tratto da La “crisi” delle riviste in Storia generale della letteratura italiana a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Federico Motta Editore, Vol. XIII, pagg. 97-98

Il fenomeno più vistoso degli anni Settanta è quello della proliferazione delle riviste di poesia che si accompagna a una crescente diffusione della poesia presso un pubblico di massa, per lo meno nelle forme della spettacolarizzazione (letture pubbliche, festival di poesia ecc.). Mentre si andavano via via esaurendo le esperienze delle riviste politiche del decennio precedente (la maggioranza delle testate chiudevano o assumevano una funzione diversa da quella originaria, come avveniva per i “Quaderni Piacentini” e “Ombre rosse”) e gran parte delle riviste letterarie subiva il mutato atteggiamento verso la letteratura (alcuni periodici, per esempio “Paragone”, non mostravano di registrare la crisi; altri, come “Il Verri”, sceglievano la linea critico-teorica sacrificando quasi totalmente la parte testuale), nascevano decine di nuove testate di poesia: “Periodo ipotetico” (1970) di E. Pagliarani (che, a differen¬za di altre riviste, cercava di coniugare discorso culturale e discorso politico), “Tam Tam” (1972 di A. Spatola e G. Niccolai che, fin dai primi numeri affiancata dalla ricerca saggistica di “Altri Termini” (1972) di F. Cavallo, rilanciava il dibattito e il nuovo corso poetico, “Almanacco dello specchio” (1972) di M. Forti, “Quinta generazione” (1973) di G. Piccari, “Pianura” (1974) di S. Vassalli che proseguiva l’esperienza di un altra testata, “Ant.Ed”.
Una linea specifica era poi rappresentata dai fogli che, in vario modo, si collocavano entro l’esperienza esoeditoriale, che esprimevano, cioè, fin dalle loro modalità di produzione e di stampa una posizione antagonista rispetto all’editoria tradizionale. L’uso del ciclostile veniva teorizzato come liberazio¬ne dalla tipica alienazione del poeta all’industria culturale (gli stessi Zanzot¬to e Roversi avevano prodotto testi ciclostilati o in edizione artigianale) e come tratto di identità politica e di contestazione del nuovo ritorno all’ordine. “Téchne” (1969) di E. Miccini e “Collettivo r” (1970) di L. Rosi, F. Manescalchi e U. Bardi proponevano i primi esempi di questo tipo di foglio, seguiti da “Quasi” (1971) di G. Zagarrio e G. Favati e da “Salvo Imprevisti” (1973) di M. Bettarini. Si tratta di riviste (o antiriviste, come allora amavano definirsi) tutte nate a Firenze, città che rappresentava per diversi anni la punta avanzata del dibattito sulla possibilità di una poesia effettivamente alternativa, che distruggesse i codici comunicativi borghesi (un’ipotesi che era stata già della neoavanguardia, ma che era stata dilapidata) e le forme della tradizione letteraria sclerotizzata, e che recuperasse nella prassi poetica una forma di impegno civile e politico.
Esperienze simili, tese alla riaffermazione di una nozione di impegno in letteratura e frutto di un lavoro di gruppo che veniva sperimentato attivamente anche nel territorio, avvenivano contemporaneamente in Sicilia ove, accanto alla cosiddetta “scuola di Palermo” (con R. Di Marco e G. Testa) più vicina all’opzione neoavanguardistica, operava attivamente l’Antigruppo, il cui nucleo iniziale comprendeva R. Certa, C. Cane, G. Diecidue, N. Scammacca, P. Terminelli ai quali si aggiunse poi S. Calì. Inizialmente l’Antigruppo ebbe il suo organo in “Impegno 70” del 1971 (diventato poi “Impegno 80”); successivamente, nel 1973, da dissensi interni nel gruppo nasceva l’Antigruppo Palermo di Terminelli e Apolloni, che dal 1976 avrebbe assunto il nome di Intergruppo.
L’esperienza esoeditoriale verrà dichiarata consumata già verso la metà del decennio (anche se persisterà una forma marginale di underground selvaggio); riprenderà parzialmente nel 1977 quale supporto creativo-politico al Movimento studentesco e nei primi anni Ottanta come strumento editoriale po¬vero delle tante riviste e rivistine del periodo, riproponendo, con qualche variante, i problemi dell’ uso privato del ciclostile e dei gruppi letterari.
Quello del lavoro di gruppo (e, dunque, della rivista quale prodotto di una esperienza di un soggetto collettivo o, comunque, di più soggetti uniti da una progettualità con elementi comuni) è un altro degli elementi caratteristici e talora centrali in molte testate degli anni Settanta. La nozione, di origine sessantottesca, di collettivo o gruppo di base subisce nelle riviste di poesia una accentuazione nel senso del laboratorio, a volte con connotazioni politiche (soprattutto all’inizio del decennio) che progressivamente si diluiscono per lasciare il campo a una pura officina, essenzialmente di poesia. Esempi cronologicamente e morfologicamente diversi, oltre alle già citate esperienze dell’Antigruppo siciliano, possono essere considerati “Niebo” (1977) di M. De Angelis, “Il Foglio” (1980) della casa editrice Guanda, legato alla Società di Poesia, e il “Bollettino del Laboratorio di poesia” (1981) di E. Pagliarani, prodotto dal Laboratorio di poesia, che nascevano, appunto, da formule e da pratiche diverse di lavoro collettivo.

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Ugo Piscopo

 

 

Scritto apparso su Ippocrene nel 2011

Dialogo (quasi) a bocca chiusa

Dicono i grammatici normativi che i verbi sono di due tipi: transitivi e intransitivi.
L’esperienza dice diversamente: che quasi tutti i verbi (e la verbalità) sono intransitivi.
Tali, ad esempio, parlare, insegnare, educare, scrivere & co.
Esistono anche i verbi transitivi, certamente: ma trattasi di eccezioni. Che, in quanto tali, confermano la regola. Tali, ad esempio, tacere, ricordare, ascoltare-realmente, inventariare, analizzare, interpretare, pazientare certosinamente e attendere. Non godot, ma il sottrarsi del senso delle vicende. Perché queste sono in quanto sono, ma essendo, immediatamente si rovesciano nel dicibile, che è interfaccia dell’indicibile.
Intanto, veniamo a noi. Sono legittimato, nei confronti di antigruppo, a parlare di noi, come sottolineavano gli espressionisti tedeschi criticamente attestati sul versante del wir sind – wir waren. Ma posso dire di noi pressoché come un testimone auricolare in materia di quanto egli abbia potuto sentire o gli sia stato fatto sentire.
Comunque, anche la condizione di testimone non è casuale, come sostengono gli
psicosomatici. Uno non si trova mai senza un suo consenso profondo in un luogo, in/presso un accadimento.
Perciò vengo ai fatti. Che sono di collusione ideale e un po’ anche materiale: partim et passim.
Non ricordo più come ci conoscemmo. Se ci fu uno che ci presentasse, perché è nel codice antropologico che ci sia sempre qualcuno che faccia da anello d’interpretazione e da garante. O se fu lui una sera a chiamarmi da Palermo e ad avviare una di quelle filippiche che non finiscono mai, ma proprio non finiscono mai. La notte avanzava e lui continuava, fieramente, sempre più incalzantemente.
Progressivamente la telefonata mi intrigava, mi strappava il consenso. La voce
dell’interlocutore, ovvero dell’oratore si identificava a mano a mano con quella di un gruppo o, meglio, di una città. Era Palermo che parlava in un italiano dalle forti inflessioni palermitane, ma con sue ragioni vigorose, con icasticità etiche che venivano disoccultando mistificazioni e disvalori, che chi viveva a Napoli, in maniera partecipata come me, non poteva non capire.
Non solo Palermo s’era messa a parlare a Napoli, in uno sfogo più che plausibile fra due capitali del malessere e delle contraddizioni nazionali, ma a Palermo un po’ ci abitavo.
Lì ho avuto l’editore a me più caro, nel cui catalogo egli mi ha consentito generosamente di occupare per decenni uno spazio di ampio respiro. Per sovrappiù, per chi come noi di quel tempo sapeva che la rivoluzione era all’angolo e che era ineludibile entrare nel cambiamento sull’onda delle insopprimibili attese del Sud, non poteva non saldarsi una solidarietà intellettuale meridionalmente magnatica.
Chi era questo impetuoso e coinvolgente animatore di passione? Chi poteva essere, se non il poeta di Antigruppo impegnato programmaticamente nell’antagonismo e totalmente vocato alla mimesi dell’antitesi che assume il vissuto e la microstoria a esemplificazione delle storture universali?
Era Pietro Terminelli in persona.
In quel periodo, era la fine degli anni Sessanta, per parte mia mangiavo anti e
letteratura, anti e politica, anti e giornalismo, anti e scuola. Davo consenso senza riserve ad “Ant ed” di Sebastiano Vassalli. E quando i carabinieri andarono a casa sua a fare accertamenti su quel foglio, io gli scrissi prontamente che ero disposto a trasferire a Napoli l’iniziativa. Nel campo delle ricerche letterarie stavo lavorando alla prima monografia, che vide la luce presso Mursia a Milano nel 1973, dedicata a Alberto Savinio, un geniale eccitatore del nuovo sul filo di uno straniante umorismo e di un’inquietudine scarnificante e spietata verso le certezze di comodo.
Poco tempo dopo quella prima interminabile telefonata, Pietro venne a trovarmi a Napoli e fu ospite per un giorno a casa mia. I miei figli a tavola si divertirono immensamente ad ascoltarlo e se ne impressero nella memoria gesti, gutturalità, impasti fonici e per anni li riprodussero in enfatica teatralità. Ancora adesso, il più piccolo, che ha un forte senso della plasticità ed è cresciuto, se ne ricorda e induce un sorriso complice nella madre. È il segno che era un personaggio scenograficamente, cioè anche scenograficamente, non insignificante.
Pietro mi aveva portato in dono fogli, tracciati, antologie, fascicoli pubblicati nella
rivista. Mi parlò di tanti amici e nemici. Io cercavo di appuntarmi mentalmente quelli che ricorrevano più frequentemente nel bene e nel male.
Cercavo anche di farmi un’idea precisa della situazione. Capii, così che il discorso si alimentava di fortissime tensioni. Notai con piacere che tutti gli attori erano impegnati allo spasimo a marcare la propria identità e a farla riconoscere anche fuori dell’isola, a Firenze, a Napoli, altrove. Fuori dell’isola, però, si muovevano e allacciavano cinghie di trasmissioni di relazionalità e di circolazione di idee essenzialmente due Dioscuri. Uno era naturalmente Pietro in persona. L’altro era Ignazio Apolloni.
Quando volli conoscere più in dettaglio i rapporti che erano stati stabiliti con quelli della “scuola di Palermo” (Di Marco, Perriera, Testa), Terminelli reagì come a una provocazione.
Nell’ottobre del 1963 dovevo essere anch’io a Palermo nella conta e ne||’unzione dei catecumeni.
Conservo ancora una cartolina d’invito di Luciano Anceschi: “Ci vediamo in ottobre a Palermo”. Dove, poi, non andai. Ma con Anceschi non cessarono i rapporti. E parlammo anche dei siciliani. Per Pietro fu come se avessi nominato un gruppo satanico o giù di lì. Esplose in scongiuri, formule apotropaiche, denunzie, denunzie, denunzie. Nel positivo e nel propositivo, intanto, mi veniva significando che la letteratura non è finzione, non compromissione, non calcolo, ma solo, se è viva e autentica, equazione e simbiosi di incandescente eticità e di espressione di antitesi. Si veniva anche appoggiando ad argomenti ovvero a tesi classiche del materialismo dialettico, ma più lo confortava a procedere nella tensione ideale l’esempio dei poeti dei nostri giorni.
Quando si imbarcò sul traghetto per Palermo in serata, Pietro si portava soddisfatto in Sicilia (nell’ideale carniere) il mio consenso, la mia simpatia, dei miei versi da pubblicare e che mi pubblicò sulla rivista.
Seguirono scambi di lettere, telefonate, altre visite di Pietro a casa mia. L’ultima volta venne a trovarmi in compagnia di Ciro Vitiello, quando si stava per lanciare “L’involucro”.
Intanto, si era venuto stringendo un dialogo anche con Ignazio Apolloni, ma più cool, più squisitamente letterario. Ignazio aveva cominciato a inviarmi in regalo i suoi libri-oggetto, sketch-poesie e provocazioni di sinestesie del linguaggio iconico e di quello verbale. Ne seguivo lo svolgimento, osservando concordanze futuriste e audaci contattazioni del fumetto e del cinema.
Ma improvvisamente un giorno mi scrisse una letteraccia, lunga, articolata, con tutti gli spazi bianchi occupati. Aveva acquistato e letto un mio libro, Novecento e tradizione, dove io cercavo di analizzare il sorgere e l’affermasi della tradizione del nuovo nella poesia italiana del XX secolo. Era la seconda edizione di tracciati di un ciclo di mie conferenze tenute a meta degli anni Sessanta all’Istituto Italiano di Cultura di Tripoli.
Ignazio mi accusava di integrazione nel sistema e mi disconosceva come amico e
compagno di strada, di svendita dell’ “anti”. Per lui passato presente e futuro andavano giudicati unicamente secondo la legge della nostra irriducibilità all’ordine costituito, che era l’irriducibilità tout court.
Gli risposi con delle precisazioni e distinzioni storiche e filologiche. Ma credo che la risposta non gli facesse né caldo né freddo perché non me ne dette riscontro. A lui bastava aver segnalato all’amico la caduta di impegno ed essersi sfogato. Le sue incazzature sono eventi: hanno una nicchia in quel momento e in quello spazio, poi vengono affidati a se stessi.
“Chi vivrà vedrà”, dice loro Apolloni e va appresso a cercare altre nicchie da riempire con la sua insopprimibile tensione creativa e con la sua follia.
Sostiene Pirandello che dentro ognuno batte una corda pazza. Io credo che dentro
Apolloni batta più di una corda pazza. Così, l’originalità è assicurata.
Originale, Apolloni è originalissimo. Non sto a tracciarne un profilo, per rispetto della natura della nota. Ma qualche glossa almeno va apposta sulla presente stagione.
La quale continua a mantenere fede, molto generosamente, alla poetica dell’”anti” sottoscritta coralmente nel gruppo negli anni Sessanta.
L’indocilità non solo all’aulico, al curiale, all’accademico, ma anche al confortevole e al gradevole che tanto spesso si coagula e gratifica autori e fruitori della comunicazione media e perfino di quella bassa e degradata, dove non manca chi si rifugi per dileggio delle misure e convenzioni alte, produce sciami sismici di annichilimento di tentativi e tentazioni di addomesticamento alla cosa immonda che è il sistema. Il non senso si compiace di appostarsi fin dall’inizio per poi fare sberleffi al lettore nel corso dei lavori o alla fine degli stessi, ridendo della sua ingenuità a non essersene accorto da subito. Il divertimento, di etimo palazzeschiano, che pertanto rivendica il diritto sia di scollegarsi aprioristicamente da implicazioni ideologiche e moralistche, sia di aggirarsi in allegria intorno a ogni spunto o pretesto ludico, scompiglia e sconvolge le trame supposte o supponibili delle vicende.
Questo è oggi come ieri, anzi forse più di ieri, perché Apolloni, col passar del tempo, rende ancor più lieve e giocosa la disponibilità all’avventura ideale (e forse anche esistenziale).
Perché appartiene alla razza di quelli che nascono non per restare giovani, ma per essere ogni momento, in ogni prova, giovani sempre.
Ma il gioco, oggi, è per lo scrittore molto più sottile di prima e i veleni che egli
dissemina nel suo fare sono molto più insidiosi e tenaci. La strategia stessa della poiesis è più astuta, potendosi Apolloni giovare del dialogo che viene intrattenendo con dei volponi della letteratura come Gramigna e Finzi.
Il segno più tangibile degli acquisti coscienziali sul versante della mimesi è nell’opzione, che non possiamo dire definitiva, perché niente è definitivo nella storia e tanto meno per il nostro Ignazio, per la narrativa, che è sempre acuminatamente “anti”, ma che in questi ultimi anni è sempre più pervasa come attività fondamentale e fondamentalmente verbale, anche se sollecitata da tecniche verbali dei nuovi media, dal cartoon alla tv e al computer. Sembra proprio che Apolloni finalmente si sia deciso a prendere cittadinanza, ma anche residenza, nel romanzo, nella novella, nella favola.
Ma vediamo quali scherzi perversi egli continua a fare a danno (ma anche a vantaggio) delle istituzioni letterarie.
Partiamo dalla favola, che a un siciliano riesce spontanea, perché “discende per li rami”.
La predisposizione sorgiva alla fabulazione e alla favolistica non cerca, in Apolloni, contaminazioni con l’esotico e la sensualità mediterranea e saracena, come ad esempio in Bonaviri (anche lui siciliano, non a caso). L’autore non si lascia implicare né antropologicamente, né sociologicamente, né subliminarmente.
Egli è deciso a servirsene, perché è venuto scoprendo che in tale inclinazione possiede una risorsa decisiva. Ma stabilisce di servirsene senza compiacimenti, al di là degli schemi, perché non può farne a meno.
Modernamente, cioè in senso innovatore e sperimentale insieme, va a saggiare le
possibilità della favola prima nell’avvicinamento delle punte con il fumetto alla Charles Schulz, alla Johnny Hart (l’autore di B.C.), alla moda di Al Capp. Successivamente, dopo e durante frequentazioni delle “anime” giapponesi e di Tiziano Sclavi, rilancia la favola e il racconto per i giovanissimi con provocazioni nichilistiche.
Il ricorso alla favola è strumentale apertamente alla registrazione della morte della stessa.
Si apra a caso una pagina di Capellino (1991), la prova più impegnativa e significativa di Apolloni nella narrativa per ragazzi, e si troveranno a iosa periodi lunghi, addensarsi di materiale semantico non tarato sulle capacita d’intelligenza (e di suggestione) di chi è in fase di sviluppo, rinvii a esperienze letterarie e artistiche sofisticate della modernità, riporti linguistici da milieu sociali e culturali raffinati. In pratica la favola c’e ma solo promessa, allusa, appena suggerita. Essa si cerca come fruitore non il bambino o il ragazzo vero, ma l’adulto mentalmente maturo e vaccinato ai mali della vita e agli scherzi del linguaggio, in cui tuttavia abiti l’albale innocenza degli inizi.
Questo lettore in Capellino troverà deliziose occasioni di sognare a occhi aperti e
riscoprire il piacere dell’invenzione e dell’intrigo. Analogo pubblico cercava Mozart per le sue favole settecentesche o Ciajkovskij con Il lago dei Cigni e lo Schiaccianoci. Ironia, svuotamento dall’interno di ogni contenutismo narrativo, trasgressione, giuoco
crudele al massacro delle convenzioni, ma intrisi di brio creativo, animano egualmente le opere non favolistiche. Gilberte (1994), ad esempio, un libro di 563 pagine, è un romanzo anti-inter-meta.
Come acutamente osserva Gilberto Finzi, in esso, “come in una lezione del grande Lacan, il testo sa molto di più di quanto non sappia il suo autore”. La complessa, intrigata, sfaldata vicenda rappresentata implode in mimesi del caos che incombe e circola non solo sul mondo contemporaneo, ma sul mondo in sé e si fenomenizza nell’avvolgente, gratuita narratività, anonima eterna, dettata da una “bouche d’ombre”.
Ormai, l’accettazione di trovarsi e guardarsi nella letteratura come specchio della realtà e intersezione della stessa, è piena. La sottoscrizione è in Racconti patafisici e pantagruelici (2000). Qui tutto il gusto dello scherzo e dello scherno è avvolto nella consapevolezza che in questione non è solo il fantasma dell’oggetto, ma il destino stesso di chi parla insieme con quello del corpo della parola.
È un punto alto toccato da Apolloni. Forse il più alto e persuasivo. Ma un punto anche di approdo dell’agonismo di Antigruppo-Intergruppo.
Napoli, novembre 2001
Ugo Piscopo

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