Da questi nuovi, esuberanti racconti di Ignazio Apolloni emerge, forse
più che altrove, soprattutto una gioia di scrivere: una leggerezza
e una felicità che ricordano i giochi dell’infanzia.
Ma insieme vi si trova il gusto provocatorio delle agudezas e del
rovesciamento dialettico, quella passione antica così tipicamente
siciliana (già notata da Cicerone) per le sottigliezze e i
sofismi, ma condotta fino alla soglia del paradosso e convertita in
sragionamento.
È un funambolo, Apolloni, un istrione e un saltimbanco che
usa con disinvolta destrezza le parole per irridere e schernire la
seriosità degli scritti ponderosi e pesanti.
La pirotecnica festosa che fa esplodere i suoi testi è solo
apparentemente naïf: lo stile ludico di Apolloni cerca, infatti,
argutamente di incrociare marinismo e marinettismo, di fondere il
Palazzeschi futurista dei versi onomatopeici e quello fiabesco e stralunato
di Perelà.
Ma il suo è un post-barocco scremato e asciugato; al tempo
stesso logorroico e laconico, ossimoricamente essenziale ed eccessivo,
incanalato in un periodare secco e breve, moderno e scattante, perfino
in qualche modo perentorio nel piglio sbrigativo con cui liquida le
remore passatiste, i retaggi di una tradizione ingombrante.